Intervista di don Francesco Strazzari
a Mons. Angelo Massafra, OFM
Arcivescovo Metropolita di Scutari-Pult
Presidente della Conferenza Episcopale Albanese
1. Una domanda curiosa: come mai, lei, nato nella diocesi di Taranto, è finito in Albania a fare il vescovo?
La Diocesi di Taranto mi ha generato alla fede nel battesimo, ma sono entrato nell’Ordine dei Frati Minori della Provincia dei Frati Minori dell’Assunzione in Lecce, e, da frate missionario, sono venuto in Albania subito dopo l’apertura delle frontiere, cioè nell’agosto del 1993; anche se ho messo piede, per la prima volta in Albania, il 1 dicembre 1991. L’Ordine francescano mi ha mandato in Albania come Maestro dei Novizi a Lezhë e parroco di Troshan e Fishta.
Qui sono stato raggiunto dalla nomina episcopale da san Giovanni Paolo II, il quale mi consacrò vescovo a Roma, nella Basilica di San Pietro il 6 gennaio del 1997. Inizialmente Vescovo di Rrëshen ed Ammistratore Apostolico di Lezhë ed in seguito il 28 marzo del 1998 sono stato nominato Arcivescovo Metropolita di Scutari.
2. Facciamo un salto nel tempo. Nell’aprile del 1985 muore il leggendario tiranno Enver Hoxha, salito al potere nel 1944, come capo di stato e di governo. Nel 1946 viene proclamata la repubblica popolare di Albania. Quando lei arriva nel paese delle aquile che cosa si pensava di lui?
L’esperienza della dittatura aveva stremato il popolo, riducendolo a quella povertà materiale che tante immagini di repertorio hanno documentato e che abbiamo potuto constatare di persona, ma anche ad una privazione di dignità umana che, solo vivendo accanto alla gente, si poteva toccare con mano.
È chiaro che l’idea della gente sul dittatore era piuttosto convergente: una brutta storia da gettarsi alle spalle per poter ricominciare ed una grande voglia di democrazia, di libertà, di fede e di progresso economico.
3. Ha trovato la gente che si ricordava ancora della lunga lista di martiri e delle condanne ad anni e anni di lavori forzati e di carcere come il vescovo Prendushi? Arresti e fucilazioni a non finire fra il 1955 e il 1965. Hoxha vuole creare una chiesa nazionale del tutto separata da Roma. Mons. Frano Gjini si oppone con fermezza e morirà ucciso con altri diciotto membri del clero e del laicato. Uno si domanda: ma dove trovava questa gente la forza per opporsi alla ferocia comunista?
L’opposizione al regime ha avuto diverse forme: quella degli intellettuali, decisamente fatti fuori perché avrebbero potuto aizzare le folle; quella del clero sia cattolico, ortodosso che musulmano (ma soprattutto quello cattolico), messa a tacere perché la religione era considerata la forza di opposizione più potente; quella della povera gente, inibita nelle sue espressioni più radicali di pensiero e di fede, ma capace di mantenere viva la memoria delle proprie radici e del proprio credo.
Come ha detto lei, il regime voleva una chiesa nazionalista staccata da Roma, tanto che nel 1952 stese anche uno statuto ma, di fatto, non è stata mai realizzata e tutti i sacerdoti diocesani e religiosi hanno continuato, con gravissimo rischio, ad amministrare di nascosto i sacramenti.
È fuori di dubbio che i nostri “martiri” hanno trovato la forza nella fede. “Hanno trovato la forza – ha detto il Papa nella Cattedrale di Tirana, nella sua visita il 21 settembre 2014 – nella consolazione di Dio”. Le testimonianze che abbiamo raccolte trasudano fede viva e incorrotta e molti dei martiri sono morti al grido di “Viva Cristo Re, viva l’Albania!”.
4. Il partito e il governo dichiarano l’Albania “il primo stato totalmente ateo del mondo”, spazzando via l’articolo 18 della Costituzione del 1946 che garantiva ad ogni cittadino la libertà di coscienza e di fede religiosa. Lei come si spiega che si sia arrivati a tanto?
Non è difficile rispondere a questa domanda: in parte vi ho già risposto in quella precedente. La religione, come l’autonomia di pensiero diventano un serio ostacolo ad ogni tentativo di potere assoluto. L’alternativa possibile alla eliminazione fisica è solo quella di farsi amico il potere opposto, ma se questo è impossibile o di dubbia efficacia, l’unica soluzione è dichiarare fuori legge il nemico e, così, avere carta bianca per eliminarlo. Ma è interessante capire come il dittatore è arrivato a tale dichiarazione di Stato Ateo: alla fine della II guerra Mondiale, come Partigiano, Enver Hoxha era alleato del Maresciallo Tito, con il sostegno del quale prese anche il potere. Però, dopo alcuni anni, ruppe i rapporti con il Maresciallo e si alleò con Mosca. Dopo tempo ruppe anche con Mosca e si alleò con la Cina di Mao Tse Tung, portando in Albania la rivoluzione culturale cinese; cosicché nel febbraio del 1967 decretò la “fine “ delle religioni e la chiusura delle Chiese e delle moschee: molte furono distrutte ed altre trasformate in officine, teatri, cinema, sale della cultura. La Cattedrale di Scutari fu trasformata in Palazzetto dello sport. Sequestrarono tutto: proprietà mobili ed immobili; Chiusero le scuole con il sequestro delle ricchissime biblioteche; ecc.
Papa, San Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI hanno spesso detto che quando uno Stato elimina Dio, di fatto, distrugge se stesso, l’uomo e l’economia: ciò si è realizzato in Albania, purtroppo!
5. Nel luglio del 1988 ottengo il permesso di vistare il paese e riesco, come giornalista, ad avere informazioni di prima mano soprattutto riguardo al vescovo Troshani, l’unico rimasto della gerarchia cattolica. Ho la netta sensazione che il regime sia alla fine. La “caduta del muro” di Berlino è vicina. Secondo lei, a che si deve la “caduta del muro” di Tirana?
I muri e le barriere sono segno della paura di fondo di ogni regime: è il segno distintivo di chi ha qualcosa da nascondere e nel fondo della propria coscienza sa di non essere apposto. Questo accade nel singolo individuo, a maggior ragione nei sistemi totalitari. In entrambi i casi le crisi e il toccare il fondo, rappresentano l’occasione propizia perché si cominci a risalire la china. Basta pensare alla primavera araba che sta scuotendo ogni fondamentalismo islamico e alle reazioni dell’Isis, rigurgito violento di un potere che sta tracollando, per spiegarsi anche i fatti della “primavera europea” con la caduta dei “muri”.
Nel 1985 muore il dittatore ed, Avendo rotto i rapporti con la Cina, il dittatore rimase isolato e di fatto creò uno stato autarchico che prima o poi doveva crollare, come accade ad ogni stato autarchico. Di fatto, alla sua morte sopraggiunta nel 1985, lo stato autarchico è crollato, portando una popolazione di oltre 5.000.000 di abitanti alla fame. Ecco perché, secondo me è scoppiato. Nella mia prima visita del 1 dicembre 1991 era “fame nera”. Sarebbe interessante ricordare quei primi anni di libertà e di democrazia.
Per noi, uomini di fede, inoltre, la caduta dei muri non è solo il risultato di una crisi di sistemi, ma un’azione di Dio che, come a Gerico un tempo, continua ancora oggi a manifestare la sua potenza, non senza l’unione del sangue dei martiri a quello del Cristo in croce.
Un bel colpo al regime comunista fu inferto una prima volta il 13 giugno 1990, festa di Sant’Antonio da Padova, quando circa 50.000-60.000 fedeli, sfidando la polizia, si recarono in pellegrinaggio al “suo Santuario” di Laç, che era stato raso al suolo nel 1967. L’imbarazzo dei politici e della polizia si risolse con un comunicato in cui dichiaravano che tutta quella gente “era andata per fare un pic-nic”. Ma soprattutto il 4 novembre 1990, fu assestato un secondo, quanto pesante colpo, quando un gruppo di sacerdoti, con a capo Don Simon Jubani, che era stato in carcere 29 anni, e circa 500 fedeli: cattolici, ortodossi e mussulmani, celebrarono la prima Messa al cimitero cattolico di Rmajt in Scutari. Quest’anno ricorre il 25° di quell’evento.
A proposito di Mons. Nikoll Troshani vorrei ricordare alcuni momenti vissuti insieme. Mons. Troshani abitava nella parrocchia di Troshan dove io ero parroco, appena arrivato in Albania. Mi recavo spesso a trovarlo nella sua casa; abbiamo celebrato insieme il Triduo Pasquale nel 1994, mi aiutava per le confessioni, in particolare il Sabato Santo quando per la benedizione dei cibi ci alternavamo: io benedicevo i cibi e lui confessava; Lui benediceva i cibi ed io confessavo. La mattina di Pasqua feci tenere a lui l’omelia. È importante la testimonianza che dette: celebravamo all’aperto, sia perché era una bella giornata sia perché la chiesa non era stata ancora completata. Davanti ad una folla immensa cominciò a gridare: “Dove sei tu, Enver Hoxha? Tu hai decretato la morte di Dio, ti sei messo al posto di Dio, hai voluto eliminare il nome di Cristo e di Allah dall’Albania, ci hai torturati, ci hai uccisi e sepolti, dove sei? Cristo è risorto, noi siamo risorti, la fede ha vinto. Tu sei morto. Dio è vivo e noi in Cristo viviamo. Fratelli, godiamo ed esultiamo, alleluia”. (Mons. Nikoll Troshani, il lunedì di Pasqua ,andò in Italia per curarsi, ma, dopo alcune settimane morì, fu riportato in Albania ed è sepolto nella chiesa di Kallmet – Lezhë).
Ed io dico sempre: “Chi non crede alla risurrezione di Cristo, venga in Albania e certamente si potrà ricredere”.
6. Il muro di Tirana cade negli anni 1990-91. Il regime è pressato dalla crisi economica e dalla protesta popolare e ha inizio il processo di transizione verso la democrazia parlamentare. Ma è il periodo delle fughe di massa, delle crisi politiche… Che cosa ricorda di quel tormentato periodo?
Come tutti i periodi di crisi, anche quello degli anni novanta in Albania (e non parlo solo degli inizi degli anni novanta) è stato un periodo di grande fermento: per le tensioni interne che richiedevano un nuovo ordine; per la volontà di riscatto che premeva per ristabilire la giustizia; per l’apertura al nuovo, anche se idealizzato, che spingeva alle fughe di massa; ecc.
È stato un decennio piuttosto travagliato che ci ha resi spettatori – non passivi – di tensioni, anche piuttosto gravi, dove si è rischiata la vita, ma che grazie a Dio si è evoluto e, con gli aiuti necessari, si è cominciato a far più leva sul positivo e a lavorare per migliorare quanto non funzionava. Questo processo non è ancora terminato del tutto.
Negli anni Novanta da ricordare la crisi del 1997 quando, a causa della banche piramidali, lo stato svanì e dal nord al sud tutto era nella mani dei violenti. E poi la lunga crisi dalla Ex-Jugoslavia…con la cacciata degli albanesi dal Kossovo, il bombardamento da parte della Nato con le migliaia di profughi accolti in Albania, quando con le nostre strutture conventuali e parrocchiali siamo stati in prima linea nell’accoglienza e nella cura dei profughi. (anche qui altre due pagine di storia che chiedono ed attendono verità e giustizia!)
7. Quali sono state le sfide affrontate dal potere politico, economico, sociale, ecclesiale dopo la fine del sanguinario regime comunista?
In politica ci si è dovuti aprire alla democrazia; e già questo è stato un cambiamento necessario, ma che ha richiesto anche una ridefinizione di ciò che significa democrazia. I lunghi anni della dittatura non avevano aiutato di certo a crescere in questa direzione e si è dovuto lavorare molto.
Sul piano economico le cose non sono state così semplici, e non lo sono ancora perché si è dovuto accogliere la sfida della povertà estrema e, con gli aiuti dall’estero (come contribuzione e come impegno degli emigrati), tentare di far fronte alle numerose situazioni di disagio materiale. Era un’Albania tutta da rifare. Oggi l’apertura verso l’Europa richiede l’ottemperanza di norme chiare per le quali è necessario ancora adeguarsi.
L’aspetto sociale, un po’ condizionato dai due precedenti in un popolo non più abituato a pensare con responsabilità alla salute del proprio paese, è quello più interessante, perché analizzandolo si può vedere il cambiamento occorso in questi quasi 25 anni di libertà. Purtroppo, accanto ad innegabili passi in avanti, come il superamento di forme sociali antiche, si registrano anche nuove problematiche legate all’influsso dell’occidente con i suoi problemi. In una parola, potrei definire l’Albania come un adolescente che non ha ancora finito di chiarire la propria identità che già si trova a gestire il nuovo che avanza, a volte senza criterio, ma con accoglienza passiva.
Dal punto di vista ecclesiale, si è dovuto anzitutto rispondere al bisogno di spiritualità che emergeva da un popolo che, pur non avendo perso le proprie radici religiose, tuttavia non sapeva più cosa significasse appartenenza ecclesiale. Avendo lo Stato distrutto tutte le chiese o trasformate in strutture sociali, il primo grande compito è stato quello di riprenderne la proprietà e ricostruire le chiese e strutture necessarie per la pastorale. E ringraziamo le varie Chiese sorelle che ci hanno aiutato mandando missionari e missionarie ed aiuti economici. Ancora oggi l’appartenenza ad una delle fedi presenti sul territorio albanese consiste soprattutto in una tradizione. In secondo luogo si è dovuto colmare il vuoto lasciato dal comunismo che ha fatto perdere a questo popolo la novità portata nella Chiesa dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Ci siamo molto dati da fare per tradurre tandi documenti della chiesa, tra i quali il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, i Documenti Conciliari ed il Conpendio del Catechismo. A fronte di questi bisogni, abbiamo tamponato al meglio le falle e solo ora si può parlare di vera ricostruzione del tessuto ecclesiale, a partire dal discernimento delle vocazioni che, pure, deve fare i conti con il necessario cambio generazionale: le prime vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata sono state un dono di Dio a questa Chiesa, (nel 2000 abbiamo avuto le prime ordinazioni sacerdotali) ma come tutti i doni ha bisogno di essere valorizzato e coltivato perché si sviluppi e maturi.
Oggi ci troviamo ad affrontare le medesime sfide del mondo occidentale: il secolarismo avanza, mentre ancora non si è venuti del tutto fuori dai problemi portati dalla dittatura comunista.
8. Quali i pilastri su cui poggiare la nuova Albania?
Sicuramente il primo, a mio avviso, è la storia come memoria: riappropriarsi delle proprie radici potrà essere un valido aiuto ad accogliere con un sano equilibrio la modernità che avanza.
Inoltre, essere consapevoli della propria identità religiosa potrà aiutare tutte le fedi qui presenti a riconoscersi nella comune adesione all’unico Dio. Questo è un notevole antidoto per tutte le piaghe che ancora sanguinano: essere uniti aiuterà a combattere il degrado sociale, la corruzione politica, ad affrontare ogni tipo di emergenza e rispondere ai bisogni e alle aspirazioni più profonde di questo popolo. Per noi cattolici un grande pilastro è la memoria e la conoscenza ed imitazione della fede e dell’impegno ecclesiale dei nostri “ 40 martiri”, i Servi di Dio Mons. Vincenzo Prennushi e Compagni, uccisi dal regime comunista, che speriamo quanto prima possano essere proclamati beati da Papa Francesco.
9. La visita del papa: che cosa ha significato per il Paese? Ha fatto riemergere la memoria e dato slancio alla ricostruzione morale?
È ancora troppo presto per valutare gli effetti della Visita apostolica di Papa Francesco dello scorso 21 settembre. Tuttavia, i movimenti che si sono visti durante la Visita da parte di tutte le componenti religiose e laiche del Paese, lasciano ben sperare.
Come il 25 aprile 1993, Papa San Giovanni Paolo II, nella Sua visita in Albania, ricostruendo la Gerarchia con la consacrazione dei primi 4 vescovi dopo il comunismo, ha significato un forte impulso alla ricostruzione delle comunità ecclesiali e delle Chiese, grazie anche alla presenza di circa 30 sacerdoti diocesani, francescani e gesuiti e di religiose sopravvissuti al comunismo e di tanti missionari e missionarie, così penso, mi auguro e spero che la visita di Papa Francesco spinga tutti ad un impegno maggiore di evangelizzazione del nostro popolo, continuando i rapporti positivi con le altre religioni. Nello stesso tempo spero che i politici possano far frutto delle tante indicazioni offerte dal Santo Padre, per un impegno maggiore a proteggere la natura, e per una maggior giustizia sociale a favore delle fasce più povere della popolazione.
Sicuramente la presenza del Santo Padre e la sua arte del comunicare hanno seminato molto: a noi il compito di tener viva la memoria di quell’incontro che possiamo definire “storico” e favorire la realizzazione di quelle preziose indicazioni.
10. Sono passati venticinque anni dalla fine della “cortina di ferro”. L’Albania è un Paese “associato” all’Unione Europea. Che apporto può dare a una UE che è stanca, come ha detto Papa Francesco a Strasburgo?
Il popolo albanese non è solo uno “straccio da rammendare”: questa potrebbe essere l’impressione di chi riesce a fare solo una lettura superficiale. L’Albania ha storia, ha cultura, ha risorse naturali e ricchezza di valori. Il vero problema non sarà tanto sapere quale apporto potrà dare alla stanca UE l’Albania, ma come l’UE vorrà accogliere la ricchezza di questo popolo.
I popoli che appartengono all’UE non si conoscono tra di loro se non superficialmente; sarà così anche per l’Albania? La si ingloberà fino a farle perdere la sua identità? Se ne sfrutteranno le ricchezze a vantaggio solo di chi ha l’abilità di appropriarsene? Ci auguriamo di no.