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Intervista per Jesus

INTERVISTA PER JESUS

E’ domenica. Per la messa delle nove la cappellina è strapiena. Famiglie, anziani, giovani della comunità Giovanni XXIII con il messalino in italiano. Le clarisse guidano i canti, celebra padre Pino Piva, il superiore dei gesuiti che abitano dall’altro lato della strada. Per tentare di capire qualcosa della Chiesa in Albania, che il Papa incontra il 21 settembre, forse la cosa migliore è partire dalla periferia, da questa piccola chiesetta di Scutari. Dietro la cappella un corridoio conduce a quello che un tempo era l’alloggio dei francescani, prima dell’arrivo del comunismo, nel 1946, quando il convento divenne la sede della polizia segreta e le celle furono trasformate nel carcere di massima sicurezza. Una grande stanza con alcune vetrine conserva i documenti con gli elenchi dei prigionieri, gli oggetti usati per la tortura, le foto dei sette frati che qui vivevano, dei religiosi e di quelli che vi sono passati. “Di molti di loro si è persa ogni traccia, i corpi non sono stati mai ritrovati. Qualche sopravvissuto è tornato e ha riconosciuto le manette o i ferri degli interrogatori”, dice Lula, la superiora della comunità di sette monache, tre italiane e quattro albanesi, legate alle clarisse di Otranto. Quando il carcere ha smesso di funzionare è diventato una discarica.  Le religiose sono arrivate nel 2003, hanno ripulito e  la struttura è stata trasformata in “un luogo della memoria”, perché “sentiamo tutta la responsabilità di mantenere questa testimonianza”, dice madre Lula. Il pavimento, a causa di un “maldestro” restauro  voluto dall’autorità pubblica, è stato cementato e sono così scomparsi i segni della sedia per la tortura. Ma la settantina di celle su due piani sono lì e i muratori, inviati a “dare una ripulita”, non sono riusciti a cancellare tutti i graffiti in cui si intrecciano la croce  e la moschea, il nome di Allah e quello di Dio (Zot), le invocazioni “Signore ascoltaci” scritte nel dialetto del nord.  Rosari, un lumino, una croce sono stati messi nella cella dove venne massacrata Maria Tuci, giovane novizia. La sua foto, grandi occhi neri su un volto dalla bellezza antica, spicca – unica donna – anche tra quelle dei martiri ricordati nella cattedrale, poco lontana, ritornata alla sua funzione dopo essere stata trasformata in un palazzetto dello sport.  A qualche chilometro di distanza, nel cimitero della periferia nord, una targa dice che lì, probabilmente vicino al grande acero, furono fucilati, nel ’47, i padri Daniel Dajani e Giovanni Fausti e una tomba in marmo nero, vuota, ricorda tutti i gesuiti imprigionati, torturati e uccisi sotto la dittatura.
La Chiesa di Albania celebra i suoi martiri il 4 novembre. Una memoria che ogni famiglia cristiana ha conservato anche attraverso gli oggetti che hanno rivisto la luce nel 1991, dopo il crollo del regime di Enver Hoxha:  le statue sepolte nelle campagne, nascoste nei sottotetti, i crocifissi occultati  tra false pareti di cartongesso, le immagini sacre ripiegate in mille parti sotto altri quadri. Quando è finito il comunismo la Chiesa si è ritrovata con pastori anziani, malati e provati dalla prigionia e dalla tortura. E con un popolo che ricordava le nozioni di fede trasmesse dai genitori, ma chiedeva un’evangelizzazione a tutto campo.  Dall’estero sono arrivati aiuti copiosi. Molte congregazioni hanno quasi fatto a gara a creare opere e a inviare consacrati. Non pochi hanno creduto di poter trovare un campo fertile per arare vocazioni.  L’Italia è stata in primo piano, per la vicinanza oggettiva, per i legami passati e per il fatto che molti albanesi avevano imparato l’italiano grazie alle televisioni commerciali. Gli aiuti hanno però avuto alcune controindicazioni:  si è creata, per esempio, una silenziosa divisione nella comunità ecclesiale, tanto che oggi alcuni distinguono tra “la Chiesa nostra e quella italiana”; si è favorita una tendenza all’assistenzialismo che già il regime aveva radicato, contrabbandando un’immagine  di Chiesa “ricca”, cui attingere per ogni necessità materiale,  e mettendo in secondo piano la dimensione spirituale dell’annuncio.
“La Chiesa albanese ha privilegiato la creazione delle strutture: oggi abbiamo un paese disseminato di chiese, ma manca la comunità ecclesiale” osserva Paolo Rago, della Comunità di sant’Egidio, da oltre 25 anni nel paese. C’è stato poi un equivoco in cui sono caduti in tanti: “Abbiamo applicato all’Albania delle categorie ecclesiali o di missione che avevamo mutuato da esperienze precedenti. E questo ha ingenerato problemi enormi. Siamo arrivati già con le risposte senza ascoltare le loro domande”.  “Siamo venuti con gli schemi del Vaticano II, ma per loro era arabo E’ come se Gesù avesse spiegato la Trinità prima di fare il falegname”, esemplifica padre Armando Ceccarelli, gesuita, che per nove anni è stato rettore del seminario interdiocesano di Scutari.
“Oggi possiamo dire che si è fatto più sacramentalizzazione che evangelizzazione”, considera monsignor Angelo Massafra, arcivescovo di Scutari-Pult e presidente della Conferenza episcopale, che riunisce le cinque diocesi e l’Amministrazione Apostolica del Sud del paese. “Una priorità che abbiamo davanti è ridare fondamenti teologici e biblici alla nostra catechesi”. Dal 2005 l’Albania non è più sotto Propaganda Fidei, “eppure siamo ancora da considerare terra di missione, in quanto l’80-90 degli operatori pastorali siamo missionari”, aggiunge il vescovo.  Di questo si parlerà nell’assemblea che si tiene dal 25 al 27 settembre, sul tema “L’Evangelizzazione in Albania – Ieri, oggi e domani”. “Parteciperanno sacerdoti, religiosi e religiose e laici impegnati nella pastorale”, dice monsignor Massafra. Due i documenti principali che verranno messi a fuoco – Evangeli Nuntiandi di Paolo VI ed Evangeli gaudium di papa Francesco -, oltre alle consegne che lo stesso Francesco  lascerà all’intero Paese nel suo giorno di visita a Tirana. (…) (Purtroppo l’Assemblea è stata rinviata proprio per la vicinanza della visita del Papa…speriamo nel maggio 2015)
Oggi tutte le comunità si confrontano con una situazione frammentata, in cui a volte la globalizzazione e i social network coesistono, spesso nelle stesse persone, con una diffusa credenza nel malocchio e nella superstizione da un lato e con l’antico codice d’onore millenario del Kanun dall’altro. Una commistione che ha costretto la Chiesa cattolica a fare i conti, per esempio, con la  cosiddetta “vendetta di sangue”. “Gli omicidi che coinvolgono alcune persone delle stesse famiglie e la loro discendenza continuano ad avvenire nelle nostre diocesi. Io stesso ho organizzato della liturgie di riconciliazione in cattedrale e sono intervenuto perché si mettesse fine a queste tragedie”, dice monsignor Massafra, che due anni fa, con i vescovi di Sappa e di Lezhe, ha firmato un decreto di scomunica per “chiunque commette omicidio oppure collabori affinché si compia e concorre in maniera intenzionale affinché esso avvenga”.
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